Guelfo Tagliavini è Presidente della società Tesav e Consigliere di Federmanager Roma. Da vent’anni promuove iniziative finalizzate allo sviluppo e all’applicazione di nuove modalità di lavoro.
Caro Tagliavini, perché ha scritto il libro “Il lavoro diventa una cosa nuova” (nonostante tutto)?
“La risposta sta in quel “nonostante tutto”. Il libro è il frutto di una lunga esperienza e di una profonda riflessione sul tema dell’innovazione delle modalità di lavoro in Italia, in un contesto che non è sempre favorevole a questo tipo di cambiamento.”
Può raccontarci in cosa consiste questa sua riflessione?
“Sono qui apposta. Tutto è iniziato nel 2017, quando ho pubblicato il mio primo libro sul lavoro innovativo, dal titolo “Il romanzo del telelavoro”. In quell’occasione, avevo voluto sottolineare i benefici che il lavoro da remoto poteva portare sia ai lavoratori che alle imprese, in termini di maggiore flessibilità, produttività, qualità della vita e risparmio di tempo e risorse. Il libro era uscito pochi giorni prima dell’entrata in vigore della legge 81 del 27 marzo sul lavoro agile, che aveva introdotto una normativa più moderna e favorevole a questa forma di lavoro.”
Quindi lei ha per così dire anticipato governo e parlamento…
“In effetti, potrei definirmi un precursore…Scherzi a parte, sicuramente sono stato tra i primi a credere e a sperimentare il lavoro agile in Italia, come manager e come consulente. Ho anche organizzato, nel dicembre del 2012, un convegno in Federmanager a Roma per affrontare il tema dell’innovazione dei processi e analizzare i progetti abilitanti necessari per lo sviluppo e la valorizzazione del nostro comparto produttivo. Tra i relatori Paolo Gentiloni e lei, Palmieri, che allora era uno tra i pochi deputati attento ai temi di internet e del digitale.”
Ricordo bene quel convegno, fu molto interessante e stimolante. Ma torniamo al suo secondo libro. Cosa l’ha spinta a scriverlo?
“Ho scritto questo secondo libro – arricchito dal contributo di tre amici impegnati nelle materie dell’innovazione tecnologica e dei processi produttivi, Simona Manna, Andrea Penza e Vitodonato Grippa – perché ho voluto mettere l’accento sul fatto che, anche nel nostro paese, collocato in coda alla graduatoria dei paesi europei in materia di crescita e sviluppo di soluzioni digitali e tecnologie abilitanti, nonostante tutto, si sia cominciato ad invertire la rotta. Siamo passati da una condizione di “bonaccia” ad un lento ma inesorabile processo di innovazione delle modalità di lavoro.”
Cosa intende per “nonostante tutto”?
“Intendo dire che questo processo di innovazione si è sviluppato nonostante una serie di ostacoli e resistenze che hanno caratterizzato il nostro contesto culturale, burocratico, istituzionale e sociale.”
Vediamoli più in dettaglio…
“Abbiamo un retaggio culturale che ha da sempre privilegiato il lavoro inteso come fedeltà al marchio, attaccamento al capo, presenza sul posto di lavoro.
Il nostro sistema produttivo si basa su piccole/micro imprese che non sono propense ad applicare criteri di cooperazione e a sviluppare soluzioni di reti di impresa.
Nelle medie e grandi imprese il middle e top management non è preparato a gestire l’innovazione dei processi produttivi e tra essi quelli legati all’innovazione delle modalità di lavoro. Nella PA la quasi totale assenza di programmi di formazione impedisce l’applicazione di soluzioni di lavoro che consentirebbero ai dipendenti di erogare, con efficacia e da remoto, una serie di servizi nei confronti dei cittadini.”
Un elenco non sorprendente…
“…e non è finito. Si continua, da più parti, a pensare che il lavoro da remoto possa significare “spassarsela sotto l’ombrellone” in qualche villaggio turistico. Si ignorano le nuove generazioni, che chiedono in maniera esplicita maggiori spazi di autonomia da destinare alle proprie ambizioni e ai propri interessi.”
In tutto questo scenario, che ruolo gioca la politica?
“La politica, nazionale e locale, sembra più interessata alla tutela delle varie lobbies rappresentate dal mondo dei ristoratori, degli esercizi commerciali, delle società immobiliari e di tutto quel sistema che vive intorno ai grandi insediamenti ad uso del terziario e alle innumerevoli sedi della PA. Non si vuole aprire gli occhi di fronte al fatto che la riduzione del pendolarismo, casa/ufficio/casa, contribuisce ad abbattere i livelli di inquinamento delle nostre città, a tutto vantaggio delle popolazioni che in esse vivono. Non si tiene in alcun conto che ogni anno ogni lavoratore utilizza un numero impressionante di ore per spostarsi da casa al lavoro e viceversa, ore che potrebbero essere impiegate in modo più utile e gratificante, sia per sé che per gli altri. Ho calcolato che, in media, ogni lavoratore italiano impiega circa 300 ore all’anno per il pendolarismo, che equivalgono a 37 giorni lavorativi. Se moltiplichiamo questo dato per il numero di lavoratori, otteniamo una cifra enorme di tempo perso, che potrebbe essere recuperato con il lavoro agile.”
Quindi il suo libro vuole essere una testimonianza e una proposta di come il lavoro possa diventare una cosa nuova, non solo una necessità, ma una opportunità di esprimere il meglio di sé, contribuendo al benessere della società?
“Esattamente. Questo libro vuole essere un invito a guardare al futuro con fiducia e con spirito di innovazione, a sfruttare le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie e dalle nuove modalità di lavoro, a valorizzare le competenze e le aspirazioni delle persone, a creare una cultura del lavoro basata sulla collaborazione, sulla responsabilità, sulla flessibilità e sulla qualità. Il mio libro è una sfida a tutti i soggetti coinvolti nel mondo del lavoro: imprenditori, manager, lavoratori, sindacati, istituzioni, politica, a fare la propria parte per rendere il lavoro una cosa nuova, nonostante tutto. Sono a disposizione per approfondire e confrontarmi con chiunque sia interessato a questi argomenti.”
Antonio Palmieri